Afghanistan anno zero, ancora una volta

“Afghanistan anno zero”. Si intitolava cosi un libro scritto dal compianto Giulietto Chiesa, esattamente 20 anni fa. Un titolo perfetto che racchiude, in tre sole parole, la storia di una nazione mai nata. E la sciagura che accompagna il suo popolo, ormai in preda agli orrori della guerra da decenni angosciosi, è sotto gli occhi del mondo intero. Gli ultimi , sbiaditi, lontani ricordi di una vita quasi normale risalgono ai vecchi tempi del regno di Re Zahir, dissoltosi definitivamente nel 1973. Dopo l’invasone sovietica del 1979 vi sono stati solo perenni, infiniti, sanguinosi e dolorosi conflitti. Che le forze armate afgane si sarebbero sciolte come neve al sole, dopo il ritiro americano e l’avanzata talebana, era un fatto ben noto da tempo. Creare un esercito nazionale, seppure numericamente consistente con 350.000 uomini , cercando maldestramente di saldare sotto un’unica bandiera uomini in contrasto tra loro, etnicamente e culturalmente diversi, divisi da vecchi rancori ed odi tribali, era una missione praticamente impossibile.

Quegli stessi odi e rancori tribali che potrebbero riesplodere da un momento all’altro, facendo risprofondare l’Afghanistan in una nuova, cruenta, pericolosa guerra civile. L’obiettivo principale comune, quello di allontanare dal paese le truppe statunitensi e le forze della coalizione internazionale , è oramai stato raggiunto. I Talebani, che presero già il potere nel 1996 grazie all’appoggio dei servizi segreti pakistani, interessanti prevalentemente al controllo delle sterminate piantagioni di oppio coltivate nel territorio, saranno chiamati adesso a mettere d’accordo pashtun, tagiki, uzbeki, tukmeni, hazara, baluchi, aimak e ad unire 34 province morfologicamente non omogenee tra loro dove vengono parlate, complessivamente, otto lingue differenti. E sarà un’ impresa certamente ardua. Come arduo sarà capire quali saranno ora i nuovi scenari geopolitici a cui andrà incontro l’Afghanistan, quali alleanze esterne verranno pianificate ( con la Cina sono già un passo in avanti) e come saranno sviluppati i suoi equilibri interni.

 

Sempre i Talebani promettono che l’Afghanistan non sarà più quel “santuario del terrore” che era prima dell’ 11 settembre 2001, giorno del peggiore attacco terroristico della storia contro gli Stati Uniti, compiuto da Al Qaeda, organizzazione che aveva nel regime talebano uno dei suoi principali alleati e protettori. Seppure Al Qaeda e Daesh non siano più forti e temibili come prima, potrebbero ritrovare ora un solido riferimento politico-culturale ( insieme a tutti gli altri gruppi legati all’integralismo islamico). Ma il più concreto , grande problema a cui il paese sta andando incontro, a cui tutto il mondo dovrebbe guardare con preoccupazione, è quello che riguarda la situazione sociale in cui si trovano tutte le donne afgane.

Secondo il “Women Peace and Security Index” l’Afghanistan è il peggiore paese al mondo per le condizioni di vita delle donne. I proclami fatti in questi giorni, dove si parla di “rispetto dei diritti delle donne sotto la legge della sharia” sono dichiarazioni puramente propagandistiche, fatte da un regime integralista che sta solo cercando riconoscimento e legittimazione internazionale. Molte donne vengono vendute, ridotte in schiavitù, costrette ad avere un’esistenza espropriata da tutte le libertà più elementari, come quella di lavorare o di praticare sport. Negli ultimi 20 anni vi erano stati, sotto questo aspetto, solo dei piccoli, impacciati segnali di apertura verso la popolazione femminile ( e solo in alcune città). In quasi tutta la nazione i diritti delle donne sono rimasti negati, come lo sono stati in passato, senza che l’Occidente intero abbia mosso un dito.

Di fotografie di afgane con il burqa, l’abito che ricopre dal capo ai piedi chi è costretto ad indossarlo, ne possiamo trovare tante in ogni angolo del web. E’ quel lungo vestito che lascia la possibilità di vedere quello che ti circonda solo attraverso una strettissima retina che ti avvolge gli occhi, lasciando il viso ed il corpo completamente coperti, annullando la bellezza e la personalità di chi lo indossa. Un indumento che non ha nulla a che vedere con il tradizionale hijab e con l’islam moderato a noi vicino.

Le immagini che ci giungono in queste ore di tante donne afgane che hanno, giustamente, paura per il loro futuro e le loro condizioni, sono l’emblema di un fallimento colossale, lo stesso fallimento su cui tutti i governi occidentali dovrebbero interrogarsi, forse capendo, una volta per tutte, che determinati valori non si trasmettono con la guerra o con l’uso della forza. Per ora l’Afghanistan in tema di diritti umani resta ancora all’anno zero.

 

Nicola Lofoco da Huffpost.it